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venerdì 29 marzo 2019

Una figlia e poi... basta!

(Brano tratto dagli scritti di una donna pentitasi di aver commesso l'abominevole delitto dell'aborto)



Anno 1914: due famiglie amiche, ma profondamente diverse

Il 1914, poche settimane prima dello scoppio della Prima Guerra Mondiale, mi sposai con un tale che conoscevo fin da piccola. Le nostre famiglie abitavano nel medesimo palazzo ed erano legate da vecchi rapporti di amicizia. Quando noi ragazzi divenimmo più grandi, passavamo insieme anche le vacanze, ora alla spiaggia, ora in montagna. Con l'età mi accorsi che la sola differenza tra le due famiglie consisteva in ciò: che quella era molto religiosa, mentre la nostra lo era molto poco. Ma questo non gettò mai un'ombra sulla cordialità delle nostre relazioni, dato il rispetto reciproco che ci eravamo imposti e che ci univa in ogni cosa.

Ricordo che in un compleanno di papà, capitato di venerdì, mamma fece servire a tutti di magro, perché a cena avevamo invitato persone della famiglia amica. Ho voluto subito notare questa differenza, perché essa avrebbe purtroppo improntato anche la vita dei figli delle due nidiate; noi eravamo tre, quelli otto. Chi fosse entrato nei nostri salotti, con un po' di attenzione avrebbe potuto riconoscerci dai quadri che si vedevano alle pareti e dai giornali e settimanali o riviste mensili sciorinate dappertutto. Di là tutti o quasi tutti religiosi: io dicevo maliziosamente «da bigotti»; i nostri tutti mondani.

Com'è nato l'amore per il mio futuro marito

Una sera d'agosto che eravamo in montagna, io mi sentii improvvisamente male, con certi dolori all'addome che mi parve di morire. C'era tra l'altro un sudore freddo che mise tutti in allarme. Fuori faceva già buio e per di più si andava addensando un temporalone da far prevedere una nottataccia da lupi. Il medico più vicino era cinque chilometri distante. Tra lui e noi niente telefono, niente mezzi di comunicazione. Ma appena i miei si decisero a farlo chiamare, chi si offrì ad andarvi e non permise che altri lo facesse in vece sua fu colui che doveva essere mio marito. Era uscito da pochi minuti che il temporale si rovesciò con una violenza inaudita. Ho ancora negli occhi i lampi di quella sera e negli orecchi lo scoppio di certi tuoni che pareva volessero scardinare il mondo. Mi ricordo che in quell'occasione la signora della famiglia amica intonò il rosario e tutti pregarono insieme come non avevano mal fatto, né vidi mai più fare.

Il mio stato si faceva sempre più grave. A questo si aggiungeva l'incertezza se il medico si sarebbe trovato in casa e disposto a venire nonostante quel tempaccio. Passarono una, due, tre ore, nessuno si vedeva giungere. Vi fu un momento in cui mi parve di essere alla fine, quando papà, che era stato quasi tutto il tempo a spiare da una finestra, disse di aver inteso un fischio lontano e nell'oscurità aveva veduto le segnalazioni di una lampadina rispondere alla sua. Quando giunse il medico io perdevo già la conoscenza e non potei rendermi conto né di ciò che disse, né di ciò che mi fece. So solamente che verso l'alba mi risvegliai, i dolori erano scomparsi e il dottore mi sorrideva tutto paterno: «Coraggio, tutto é passato, domani potrà riprendere le sue passeggiatine, è contenta»? Alle mie parole di ringraziamento, egli rispose subito: «È piuttosto lui che deve ringraziare, non me. Ecco chi l'ha salvata. Se fosse giunto solo un po' più tardi...»! E dietro il dottore vidi il giovane amico di famiglia con gli occhi raggianti di commozione. Vederlo e protendergli istintivamente le braccia per attirarlo a me come un fratello e baciarlo fu tutt'uno. Fu quello il primo anello di un amore che forse era già in incubazione; ma quell'episodio lo fece improvvisamente sbocciare per portarci fino alla nostra unione.

Una figlia e poi... basta!

Durante circa due anni la nostra vita insieme fu inondata di felicità. Questa toccò il colmo quando una bambina venne a mettersi tra noi. Ma fu una felicità che per poco non mi costò la vita, tante furono le difficoltà e gli strazi che mi toccò soffrire in quel parto. Se mia figlia restò viva fu un miracolo. Subito dopo quell'evento, mio marito fu mobilitato; ma dato l'incarico affidatogli, potemmo, per tutta la durata di quella guerra, rivederci almeno ogni due mesi, talvolta anche più spesso. Un giorno che io e mio marito uscimmo a parlare esplicitamente, di figliolanza: «Nessun limite alla Provvidenza, cara». E io disse con la fermezza che soleva mettere in tutte le sue cose. Capii subito che contrariarlo avrebbe aperto tra noi uno screzio che poteva diventare un abisso, e preferii tacere.

Ma dentro me stessa si accese una rivolta che nessuno avrebbe domato. «Una chioccia continuamente in cova, ah, questo poi no»! Attraverso i discorsi di un'amica, che aveva preso a frequentarmi fin dal nostro matrimonio, anche perché coinquilina, lei al piano di sopra, noi al primo; dalle letture che costei mi forniva a getto continuo e più ancora per il ricordo di ciò che avevo patito nel dare alla luce la mia prima creatura, andavo concependo un orrore indicibile verso nuove maternità. Devo, in più, confessare, non senza mio vivo rammarico, che in questo aborrimento entrò molto la mondanità a cui mi andavo abbandonando, e con questa una passione strana per la linea, che avrei preferito morire pur di non vederla sconciare, per ricorrere a un'espressione della mia amica fedele. Dio mi perdoni, tra i tanti miei peccati trascorsi, le ore che ho passato da sola, in stupida auto ammirazione, davanti alla grande specchiera della nostra camera da letto.

- Perché leggi questa roba?, mi chiese un giorno mio marito, dando un'occhiata alle stampe suddette.
- Non ti piace?
Stette un momento senza rispondere, poi disse, a bruciapelo:
- Lo sai che cosa dice un proverbio?
- Che cosa dice?
- Dimmi che cosa leggi e ti dirò chi sei.
- Davvero?
E tutto finì, così, ma da quel giorno mio marito non trovò più nel nostro salotto quei pretesti per pensar male. Ritornai educanda, leggevo di nascosto. Vista la decisione di mio marito riguardo al problema dei figli, me ne confidai con l'amica di tutti i giorni, piangendone con un esasperato dispetto.
- Sei sciocca se l'ascolti.
- Ma come potrei fare?
- Sei ancora così ingenua? E da quel giorno divenne una maestra raffinata di pratiche anticoncezionali, che io mi misi a seguire con una docilità che essa diceva ammirabile.

Il primo aborto

Ma con tutte le precauzioni, dopo due anni, o poco più, da quella prima maternità, ecco annunciarsene una seconda, che capitò durante due mesi di licenza di convalescenza toccata a mio marito in seguito a una febbre tifoidea, che per poco non lo ammazzava. All'annuncio che ne diedi all'amica: «Prudenza - mi disse - Aspetta che parta tuo marito». E aspettai. Anzi, non vedevo l'ora che partisse, tanto il mio egoismo mi rendeva a poco a poco disamorata. Vedo ancora oggi la felicità che lo invase, nel salutarmi, al pensiero che una nuova creatura sarebbe venuta presto ad accrescere la nostra famiglia. «Te la raccomando tanto, amore mio. È il mio più geloso deposito. Addio, cara»! Ma appena partito, si cominciò a concertare con la mia amica come disfarmi dì quel caro deposito. «Prudenza e pazienza», ripeteva lei. Ma io che non avevo questa pazienza, facevo temere di non avere più nemmeno la prudenza, tanto fui presa dalla smania di far presto.

Chi mi venne incontro fu la sorte. Una sera, mentre eravamo insieme, accadde sotto le nostre finestre una sparatoria. Tutto il vicinato ne fu sottosopra. Io dovetti sbiancare di spavento e mi buttai sul letto. «Questo é il momento buono», disse lei. Non dirò a che cosa ricorremmo per liberarmi. In meno d'una settimana ero a posto. La lettera che mio marito mi scrisse, quando gli narrai il fatto, mi fece piangere di commozione e di rimorso. Gli avevo saputo dimostrare un tale dolore, che quasi tutto il suo scritto era per consolarmi. La mia amica ne rise di perfidia. Ma davanti a quella lettera io mi sentii sinceramente mostruosa e detestabile. All'incontro di alcuni giorni dopo, mio marito fu con me di un'affettuosità nuova. «Stai tranquilla, cara. È stata una disgrazia. Ma tu sei sana e il Signore non mancherà di consolarci».

Il secondo aborto

Otto mesi dopo quell'aborto, ecco i sintomi evidenti della terza maternità. La mia amica disse di far presto: «Più presto te ne sbrighi, meglio è». Ma io ebbi dei tentennamenti strani. Mi dibattevo tra l'amore per mio marito e l'orrore per l'ingombro che sentivo crescermi dentro e di cui avrei voluto liberarmi. Tergiversai per varie settimane. Le settimane divennero due, o tre mesi, per quanto ricordo. Ma una mattina corsi senz'altro dalla mia amica per consultarmi sul da farsi.

- Con una cosa portata così avanti, mica si scherza, oh!
Stetti a guardarla disfatta.
- Qui ci vuole una molto pratica. Conosco un'infermiera abilissima che si presta a questi servizi. Ma prende un accidente di paga, da far paura.
- Quanto prende?
- Dalle mille alle due mila lire. Qualche volta anche tre. Ha una fifa del diavolo di compromettersi, e per uscirne, dice, ci vuol danaro a palate.
- Mi garantisci che ha una mano sicura?
- Oh, quanto a questo, la conosco bene. Puoi essere più che tranquilla.
- Ti darò la risposta domani mattina, al più tardi.
Andai via indecisa. Ma appena fui in camera, mi aggrappai al telefono:
- Aspetto senz'altro domani mattina. L'infermiera fu puntualissima. Nuovi momenti di esitazione prima di sottopormi alle sue «cure».
- Signorina, dovrebbe suggerirmi un pretesto per giustificarmi dinanzi a mio marito.
- Ma come? Non siete già d'accordo?
- Tutt'altro.
- Ah, è così? E se lo trovi lei questo pretesto. Io non vorrei capitare in un guaio. E fece per andarsene.
- Mi abbandona? Capii che era una manovra per spillarmi tremila lire. A quei tempi! Dovetti ricorrere a un mondo di bugie per averle in giornata. Allo scopo di evitare ogni traccia che la potesse compromettere, mi invitò a casa sua da sola. Vi andai. Al ritorno mi prese un singhiozzo lungo, mai provato, che mi sconvolse tutta. Verso la mezzanotte mi sentii male ed ebbi appena le forze per portarmi al telefono. «Se ci fosse qualche novità notevole, mi dia un saluto per telefono», mi aveva detto, con una specie d'indifferenza da lasciarmi tranquilla. Ma per quanto l'apparecchio squillasse, nessuno rispose. Seppi il giorno appresso che difatti era stata chiamata altrove. Fui presa da uno spavento indicibile. Avrei voluto avere vicina la solita amica, ma proprio quella mattina si era allontanata dalla città dove sarebbe ritornata dopo qualche giorno. Sconvolta sempre più dal singhiozzo e dai dolori, mi decisi a chiamare un cugino di mio marito, che da poco aveva aperto uno studio di ginecologia. M'interrogò, insistette, volle sapere l'origine di quel singhiozzo.

Ma io mi irrigidii nel rispondere che non sapevo nulla, che tutto era avvenuto da sé. Il dottore mi guardò con un'espressione scettica che mi fece amaramente pentire di essermi rivolta proprio a lui. [...]


[Brano tratto da "Mamma, perché ci hai uccisi?", di Padre Domenico Mondrone, Edizioni Paoline, 1956]