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giovedì 10 dicembre 2015

I seminaristi lussuriosi non devono essere ordinati sacerdoti (-)

I preti che non vivono in castità sono di grave scandalo per i fedeli. Se erano lussuriosi già durante il seminario, non dovevano essere promossi agli ordini sacri, perché non avevano una vera vocazione sacerdotale. Ecco cosa insegna in proposito Sant'Alfonso Maria de Liguori nel suo celebre libro "Pratica di amar Gesù Cristo".

S. Tommaso l'Angelico (Opusc. 17, c. 10) esorta coloro che son chiamati a vita più perfetta a non consigliarsi in ciò coi parenti, poichè in tal materia essi diventano nemici […]. Di più bisogna avvertire che siccome sta in gran pericolo di dannarsi chi per compiacere i parenti lascia la vocazione di Dio, così all'incontro mette ancora in gran pericolo la sua eterna salute chi per non disgustare i parenti prende lo stato ecclesiastico senza la divina vocazione.

Tre sono i segni con cui si conosce la vera vocazione ad un tale stato così sublime: la scienza, il fine di attendere solo a Dio e la bontà della vita. Ma parlando qui specialmente della bontà, il Concilio di Trento ha ordinato che i vescovi non promuovano agli ordini sacri, se non coloro che sono stati già provati nella buona vita […]. La ragione è addotta da S. Tommaso, perchè l'ordinando con ciascun ordine sacro vien destinato all'altissimo ministero di servire a Gesù Cristo nel Sacramento dell'altare; onde dice il santo (2. 2. qu. 184 art. 8) che la santità dell'ecclesiastico deve sopravanzare la santità del religioso [...]. E questo merito di santità il santo lo chiede prima dell'ordinazione, mentre lo chiama necessario non solo affinché l'ordinato degnamente eserciti gli ordini, ma ben anche affinché l'ordinando possa esser degnamente annoverato tra i ministri di Gesù Cristo […].

Nel mio libro di Teologia Morale (Lib. 6. c. 2. ex num. 63) io ho stesa una lunga dissertazione su questo punto, ove ho dimostrato che coloro i quali senza l'esperienza della buona vita prendono qualche ordine sacro non possono essere scusati da colpa grave, mentre ascendono a tal grado sublime senza la divina vocazione; nè può dirsi chiamato da Dio chi ascende agli ordini sacri non ancor liberato da qualche vizio abituato, specialmente contro la castità. E benchè alcuno di costoro fosse capace del sacramento della penitenza per trovarsi a quello già ben disposto per mezzo del pentimento; nondimeno non è capace in tale stato di assumere il sacro ordine, per cui vi bisogna di più la buona vita provata già prima coll'esperienza da molto tempo. Altrimenti non può essere esente dal peccato mortale, così per la grave presunzione con cui senza la vocazione s'introduce nei sacri ministeri, [...] come anche per lo gran pericolo di sua dannazione, al quale si espone in tal caso, secondo scrive il vescovo Abelly: Qui sciens, nulla divinae vocationis habita ratione — come già fa colui che prende l'ordine coll'abitudine a qualche vizio grave […]. Lo stesso scrive Soto (in 4. Sent. Dist. 2. qu. 1. n. 3) ove parlando del sacramento dell'ordine dice che la santità positiva nell'ordinando è di precetto positivo […]. In tal caso dunque, quando manca all'ordinando lo sperimento della buona vita, non solo pecca gravemente il soggetto che si ordina, ma pecca ancora il vescovo che lo promuove all'ordine sacro senza la dovuta prova per cui siasi reso moralmente certo della buona vita dell'ordinando. Pecca gravemente ancora il confessore che assolve un tal ordinando abituato, il quale senza una lunga prova di sua buona vita vuol prendere l'ordine sacro. E peccano ancora gravemente quei genitori che, sapendo la mala vita dei figli, s'impegnano a far loro prendere gli ordini sacri per fini propri di aiutar la famiglia.

Lo stato ecclesiastico non è istituito da Gesù Cristo per aiutar le case dei secolari, ma per promuovere la gloria di Dio e la salute delle anime. Alcuni si figurano lo stato ecclesiastico come fosse un officio o mestiere laicale per avanzarsi negli onori o nei beni temporali, ma errano; e perciò quando vengono i parenti ad inquietare il vescovo, affinché ordini qualcuno ignorante o di mali costumi, apportando per ragione che la casa è povera e non sanno come fare, ciò devve risponder loro il vescovo: «No, figlio mio, lo stato ecclesiastico non è fatto per aiutar la povertà delle case, ma per lo bene della Chiesa». E così bisogna licenziarli affatto, e non dare loro più orecchio; giacchè tali soggetti indegni sogliono ordinariamente esser poi la rovina non solo delle anime loro, ma anche delle loro famiglie e dei loro paesi.

E parlando di quei sacerdoti che vivono in casa propria, e vorrebbero i parenti che non tanto si applicassero alle incombenze del lor ministero, quanto ad avanzar la casa colle rendite e cogli onori, essi debbono lor risponder: [...] «Io son sacerdote, l'officio mio non è di far danari e procurare onori, nè di tenere l'amministrazione della casa, ma di star ritirato, far orazione, studiare ed aiutare le anime». Quando poi vi fosse qualche precisa necessità di aiutar la casa, deve aiutarla per quanto può, ma senza lasciare la sua incombenza principale, che è di dedicarsi alla santificazione sua e degli altri.