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venerdì 23 dicembre 2016

Il cristiano deve credere di meritare il disprezzo (*)

Dagli scritti di Padre Giuseppe Ignazio Franchi (+1778)


Verità fondamentale da supporsi necessariamente, che serve come di base alla presente materia: il cristiano deve credere di meritare il disprezzo.


Chiunque ha lo spirito della cristiana umiltà riconosce facilmente e ben volentieri confessa di meritare il disprezzo, e con ciò si persuade di rendere testimonianza a una verità certa, incontestabile e divina. Per costoro potrebbe forse sembrare inutile lo stabilire all'inizio dell'opera il punto fondamentale del merito del disprezzo. Ma perché molti, che leggeranno queste pagine, non saranno ancora pervenuti al possesso di così bella, ma difficile virtù - quantunque vi aspirino - ed essendo noi nel nostro ministero debitori a tutti, anche ai deboli e principianti, è parso bene a riguardo loro, che sono in gran numero, di fissare per base e per fondamento della presente materia, che ogni cristiano può e deve giudicare, circa se stesso, di meritare il disprezzo.

Infatti, come potrebbero essere uomini di buona volontà e desiderosi di diventare umili, quali suppongono tutti quelli, che si adatteranno a sfogliare il presente libretto, se avessero difficoltà a credere di esser un nulla, e di essere peccatori? Dio stesso ci insegna queste due grandi verità, quando, per bocca di s. Paolo apostolo, ci avvisa che inganniamo noi stessi, se ci reputiamo qualche cosa, mentre in realtà siamo un nulla: "Se infatti uno pensa di essere qualcosa mentre non è nulla, inganna se stesso" (Gal 6,3).

E qual diritto, o pretesa può avere il nulla sulla stima e l'onore? Noi stessi possiamo renderne una testimonianza superiore ad ogni obiezione. Nonostante la nostra superbia ed orgoglio, cent' anni fa non c'era in noi neppure l'ombra di puntiglio, di arroganza e di desiderio di onore: e anche se, per ipotesi, ci fossimo trovati in un'estrema non curanza e abiezione presso tutte le creature, ritenendo queste ultime superiore a noi un vilissimo verme che striscia per terra, non ne saremmo rimasti offesi; e lo stesso sarebbe accaduto, se tutti gli uomini, si fossero messi d'accordo a ricolmarci di obbrobri. E perché ciò? Ecco: perché eravamo un nulla, e il nulla non è suscettibile né d'onore, né di torto, od offesa, anzi è connaturalissimo al nulla, che nessun conto si faccia di lui. Ma santo cielo! Lo Spirito Santo, che non può mentire ci assicura, come sopra si è visto, che ancora adesso noi siamo un nulla: e s. Paolo senza comparazione migliore di tutti noi e più fornito di grazie e di veri beni, al riverbero del divin lume ingenuamente confessa di sé di essere un nulla: "sono un nulla" (2 Cor 12,11); e non dovremo reputarci ancora noi per un niente? E che? Pretendiamo forse di superare nell' essere e nell'eccellenza il grande Apostolo delle genti? Non sarebbe questa una diabolica arroganza? Con ciò non si vuol dire che non abbiamo ricevuto qualche sorta di bene da Dio, ma deve tenersi per fermo - e anche qui sottomettere il nostro intelletto alla divina verità rivelante, come lo assoggettiamo in tutti gli altri misteri della nostra santa Fede - che il nostro capitale, il nostro retaggio, quello che veramente è proprio nostro, è il nulla; ed il merito di ciascuno scaturisce appunto da quel che è suo proprio, e da quel che la creatura si trova di avere di sua attinenza dinanzi a Dio, il cui giudizio è infallibile.

Confessiamo dunque anche noi con S. Paolo, e con tutti i veri servi di Dio, che siamo un nulla, "sono un nulla": e che perciò ben ci sta l'abiezione, ed è nostro dovere il tenerci adesso volontariamente in un contegno simile a questo, in cui siamo stati per secoli eterni, prima della nostra creazione; in altre parole, in una profonda bassezza e avvilimento, considerando l'onore come un bene che non è nostro e il disprezzo come del tutto confacente a noi. Questo è il primo fatto vero da cui deriva in noi il merito di essere vilipesi e confusi.

Tutto ciò però è poco rispetto all'altra causa del merito del disprezzo: il fatto che noi siamo peccatori. Il peccato è un male di gran lunga peggiore del nulla: di conseguenza chi merita il vilipendio, perché è nulla, incomparabilmente di più lo merita, come peccatore. E questa appunto è la nostra misera condizione. Il Signore in più luoghi della divina scrittura ci avverte che nell' orrore del peccato è la nostra origine, che siamo figliuoli dell'ira e dell' inferno, che al peccato siamo portati come da un'inclinazione naturale, che tutti in molte cose offendiamo Dio, Maestà e Bontà infinita, onde commettiamo frequentemente un male sommo, che di gran lunga eccede la comprensione che possiamo averne.

Quindi siamo spinti dallo Spirito di Dio e dalla santa Chiesa, nelle nostre più solenni orazioni, a confessarci rei e peccatori; così nella santa messa pubblicamente si prega che il gran sacrificio dell'altare ridondi a vantaggio anche a noi peccatori: prima di accostarci alla sacra mensa dichiariamo dinanzi al Cielo e alla terra di avere moltissimo peccato in pensieri, parole e opere; e tutto il giorno invochiamo la gran Madre di Dio, affinché preghi per noi peccatori. [...]

Ma santo cielo! E chi potrà pensare di sé, di essere annoverato tra le anime più pure, e innocenti, che risplendono nella chiesa militante, mentre i più grandi santi, vissuti anche sempre innocentissimi, si reputavano i maggiori peccatori del mondo? Ma, dall'altra parte, se Dio stesso ci assicura, che siamo peccatori, come potrà esser nell'uomo inizio di buona volontà e di spirito umile, se non si convince, con prontezza e facilmente, a credere al suo Dio, di esser peccatore, e non scolpisce nel suo cuore questa fondamentale verità? Se un cristiano si giudica peccatore, come è tenuto a fare, eccolo subito in necessità di credersi meritevole di vilipendio e di disprezzo. Ed infatti, che altro merita un peccatore come tale, uno che ha mancato di sottomissione e rispetto all'infinita maestà di Dio, che ha oltraggiato l'unico e sommo bene, se non disprezzo e castigo? Vogliamo pertanto pensare che i devoti lettori della presente operetta non rimarranno offesi, se si suppone e si pretende da loro che siano ben convinti di meritare il disprezzo, e, per quanto possono, si sforzino di crederlo. [...]


[Brano tratto dal libro "Trattato pratico e istruttivo dell'amore al proprio disprezzo", di Padre Giuseppe Ignazio Franchi].