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sabato 23 febbraio 2019

Della morte pratica, cioè l’istoria di quel che ordinariamente avviene nella morte degli uomini di mondo

Pubblico una meditazione sulla morte scritta dal mio amatissimo Sant'Alfonso Maria de Liguori. È un po' lunga, ma merita di essere letta per intero. Per rendere più facile la lettura ho fatto dei piccoli ritocchi, ho tradotto in italiano corrente alcuni vocaboli desueti e alcune frasi dal latino. Spero tanto che questa meditazione possa esservi di qualche utilità nei periodi in cui avete bisogno di "dare una scossa" alla vita, ad esempio nei periodi di torpore spirituale.



Della morte pratica, cioè l’istoria di quel che ordinariamente avviene nella morte degli uomini di mondo.

Si narra nel Vangelo corrente, che andando Gesù Cristo alla Città di Naim, s’incontrò con un giovane morto, unico figlio di sua madre, che lo portavano a seppellire fuori le porte della Città: Ecce defunctus efferebatur. Senza passar avanti, fermiamoci a queste prime parole, uditori miei, ricordiamoci della morte. La santa Chiesa vuole, che in ogni anno nel giorno delle Ceneri, dai Sacerdoti diasi ai Cristiani questo ricordo: Memento homo quia pulvis es et in pulverem reverteris [Uomo ricordati che sei polvere e nella polvere ritornerai]. Oh volesse Dio, che gli uomini avessero sempre davanti agli occhi la morte, che non farebbero la vita sconcertata che fanno! Ora, affinché a voi, dilettissimi, resti impressa la memoria della morte, voglio oggi mettervi davanti agli occhi la morte pratica, cioè l’istoria di quel che ordinariamente suole avvenire nella morte degli uomini, con tutte le circostanze che sogliono intervenirvi; onde andremo considerando passo passo.

Nel punto I. Quel che accade nel tempo dell’infermità.
Nel punto II. Quel che accade nel tempo in cui si prendono i Sacramenti.
Nel punto III. Quel che accade nel tempo della morte.

Punto I.   Quel che accade nel tempo dell’infermità.

1. Non intendo in questo Discorso parlare d’un peccatore, che sempre abitualmente è stato in peccato, ma di un uomo mondano, trascurato d’anima ed intrigato sempre in affari di mondo, contratti, inimicizie, amoreggiamenti, giochi. Egli non di rado è caduto in peccati mortali, ma di rado e dopo molto tempo poi se n’è confessato. Insomma sempre è caduto e ricaduto, e per lo più è vissuto in disgrazia di Dio o almeno imbrogliato in dubbi gravi di coscienza. Consideriamo la morte di costui secondo quel che ordinariamente suole avvenire nella morte degli uomini di tal fatta.

2. E cominciamo dal principio, in cui compare l’ultima sua infermità. Egli si alza la mattina, esce di casa per i suoi affari, ma nel mentre che sta trattando, l’assalta un gran dolore di testa, gli vacillano le gambe, sente un ribrezzo freddo che gli scorre per le membra, una nausea di stomaco, ed una gran debolezza per tutta la vita. Onde si ritira in casa e si butta sul letto. Accorrono i parenti, la moglie e sorelle: “Perché ti sei ritirato così presto? Che ti senti?” Risponde: “Mi sento male, non mi reggo in piedi, tengo un gran dolore di capo”. “Tieni febbre?” “E che so io? Ma ci sarà; andate a chiamare il medico”. Si manda in fretta a chiamare il medico. Frattanto l’infermo si mette a letto, ed ivi lo prende un gran freddo, che lo fa tremare da capo a piedi; gli pongono molti panni sopra, ma il freddo non cessa, se non dopo due o tre ore, ed allora sopravviene un gran calore. Arriva il medico, l’interroga di quel che si sente, gli osserva il polso, e vi trova una gran febbre: ma per non atterrire l’infermo, dice: “Vi è la febbre ma è poca cosa”. Domanda: “Ci avete data qualche causa?” Risponde l’infermo: “Uscii di notte giorni fa, e presi freddo: fui al convito ad un amico, e passai il mio solito cibo”. “E via, non è niente; è pienezza di stomaco, o più facilmente è qualche flussione di quelle, che corrono in queste mutazioni di tempo. Passate digiuno questa mattina, ed anche questa sera, prendete una tazza di thè, e non dubitate, state allegramente, che non è niente; domani ci vedremo”. Oh vi fosse allora un Angelo, che per parte di Dio dicesse: Che dite Signor medico? Dite che non è niente? Eppure è vero che la tromba della Divina Giustizia col principio di questo male ha già dato il segno della morte di quest’uomo; già per lui è giunto il tempo della vendetta di Dio.

3. Viene la notte e il povero malato non riposa niente, cresce l’ambascia, cresce il dolore di testa; gli pare mille anni che si faccia giorno, onde appena che vede albeggiare alla finestra, chiama la gente di casa. Vengono i parenti, gli domandano: “Avete riposato bene sta notte?” “Che riposare! Che bene! Non ho potuto chiudere gli occhi per tutta questa notte. Oh Dio che affanno che sento! Che spasimo di capo! Tengo due chiodi alle tempie che mi trafiggono. Andate a chiamare il medico, che venga presto”. Viene il medico e trova avanzata la febbre; ma con tutto ciò continua a dire: “State allegramente, non è niente: la flussione ha da avere il suo sfogo, con questa febbre più presto svanirà”. Viene il terzo giorno, e lo trova peggio; viene il quarto, e compaiono già i segni della febbre maligna, la bocca amara, la lingua nera, un’inquietudine per tutta la persona, cominciano ancora i vaniloqui. Il medico ordina pertanto purghe, salassi, acqua gelata, perché la febbre è fatta acuta. Dice poi ai parenti: “Oimé l’infermità è gravissima, io non voglio essere solo, chiamiamo altri per fare un collegio”. Ma ciò lo dice in segreto ai parenti, e non ne fa parola all’infermo, per non mettergli timore, e seguita a dire: “Statevi allegramente che non sarà niente”.

4. Sicché si parla di rimedi, di più medici, di collegio; e di confessione e Sacramenti non si fa parola. Io non so come mai possono salvarsi tali medici; essi giurano espressamente, quando si dottorano, secondo la Bolla di S. Pio V, di non visitare più l’infermo dopo il terzo giorno dell’infermità, se quegli non si è confessato; ma per lo più questo giuramento dai medici non si osserva, e così tante povere anime si perdono; perché, quando l’infermo è giunto a perdere la testa, oppure a vacillare colla mente, che serve più a confessarsi? È dannato. Fratello mio, quando ti senti infermo, non aspettare che il medico ti dica che ti confessi, fallo da te: giacché i medici per non disgustare gli infermi non gli avvisano del loro pericolo, se non quando son disperati, o quasi disperati. E così tu fatti chiamare prima il Confessore, prima il medico dell’anima, e poi quello del corpo. Si tratta di anima, si tratta di eternità; che se la sgarri allora, l’hai sgarrata per sempre senza rimedio, e senza speranza più di rimedio.

5. Il medico dunque nasconde il pericolo all’infermo, i parenti fanno peggio, perché vanno a lusingarlo con bugie, dicendogli che sta meglio, e che i medici danno tutta la buona speranza. Oh parenti traditori! Parenti barbari, parenti maggiori nemici d’ogni nemico! Invece di avvisare l’infermo del suo stato pericoloso come sono obbligati per obbligo di pietà, specialmente i genitori, i figli ed i fratelli, affinché l’infermo aggiusti i conti dell’anima sua con i Sacramenti, lo lusingano, l’ingannano, e lo fanno morir dannato. Ma nonostante che il medico ed i parenti nascondono la verità, il povero infermo dagli incomodi ed affanni che prova, e dal vedere insieme il silenzio che osservano gli amici, i quali vengono a visitarlo, e dal vedere ancora qualche parente colle lagrime agli occhi, già si avvede che la sua infermità è mortale: “Oimé, dice, già sarà venuta per me l’ora della morte, e questi per non darmi pena non mi avvisano di niente!”

6. No, i parenti non avvisano del pericolo della morte; ma perché poi pensano al loro interesse, che loro preme più d’ogni altra cosa, sperando ognuno che l’infermo gli lasci buona porzione delle sue robe, fanno venire il notaio. Giunge il notaio, dice l’infermo: “Chi è costui?” Rispondono i parenti: “È il notaio, se mai per vostra soddisfazione voleste fare testamento”. “Dunque io già sto male, e vicino alla morte”? “No Signor padre, Signor fratello (gli dicono), già sappiamo che non vi sarebbe questo bisogno; ma un giorno avrete già da far testamento, e perciò sarebbe meglio che lo facciate ora colla testa sana, e da ora lasciate aggiustate le vostre disposizioni”. Risponde l’infermo: “Eh via, giacché è venuto il notaio, e desiderate che io faccia il testamento, facciamolo. Su scrivete Signor notaio”. Il notaio prima gli domanda in quale Chiesa vuol seppellirsi, se muore. Oh che parola di dolore! L’infermo, fatta l’elezione della sepoltura, comincia a dire: “Lascio quel territorio ai miei figli, quella casa a mio fratello, lascio quel pezzo di argento a quell’amico, e quel mobile a quell’altro”. Ma Signor tale, che fate? Voi avete tanto stentato per acquistarvi queste robe, vi avete anche aggravata la coscienza, ed ora le andate spartendo, lasciando tanto a questo, e tanto a quell’altro? Ma non vi è rimedio, quando viene la morte, si ha da lasciare ogni cosa. Ma questo lasciare è cosa di gran pena all’infermo, il quale teneva attaccato il cuore a quella roba, a quella casa, a quel giardino, a quei denari, a quegli spassi; viene la morte, e dà il taglio, dividendo il cuore da quegli oggetti amati; in questo taglio ha da sentirsi dall’infermo un gran dolore. E perciò, uditori miei, stacchiamo il cuore dalle cose di questo mondo, prima che venga a staccarcene la morte con tanto dolore, e con gran pericolo allora dell’anima.

Punto II    Quel che accade nel tempo, in cui si prendono i Sacramenti.

7. Ecco l’infermo ha fatto già testamento; finalmente dopo otto o dieci giorni dell'infermità, vedendo i parenti che egli sempre più va peggiorando, e si accosta la morte, dice alcuno di loro: “Ma quando lo facciamo confessare? È stato uomo di mondo; sappiamo che non è stato santo!” Bene, ognuno dice che si faccia confessare, ma non si trova fra di loro chi voglia dare questa nuova amara all’infermo. Onde si manda a chiamare il Parroco, o qualche altro Confessore, affinché egli gliela dia; ma quando l’infermo avrà già perduta tutta o quasi tutta la mente. Viene il Confessore, si va egli informando da domestici dello stato dell’infermità, e poi della vita dell’infermo, e sente che è stato imbrogliato di coscienza: e secondo le circostanze che ode, trema della salute di quella povera anima. Il Confessore poi, intendendo che l’infermo sta all’ultimo, prima di tutto ordina ai parenti, che escano dalla camera dell’infermo, e non vi si accostino più; indi si avvicina a lui e lo saluta: “Chi siete voi?” “Sono il Parroco, sono il Padre tale”. “Che mi comanda?” “Sono venuto, perché ho saputa la vostra grave infermità, se mai voleste riconciliarvi”. “Padre mio, vi ringrazio, ma la prego ora a lasciarmi riposare, perché sono più notti che non dormo, e non mi fido di parlare; raccomandatemi a Dio, e statevi bene”.

8. Allora il Confessore, che ha saputo già lo stato cattivo dell’anima e dell’infermo, gli dice: “Signor tale, speriamo al Signore, alla Vergine S.S. che vi liberi da questo male, ma si ha da morire una volta; la vostra malattia è grave, onde è bene che vi confessiate, ed aggiustiate le cose dell’anima, se mai avete qualche scrupolo; io apposta son venuto”. “Padre mio, io mi ho da fare una confessione lunga, perché sto imbarazzato di coscienza; ma ora non mi fido, la testa mi vacilla, l’affanno mi impedisce anche di respirare; Padre mio, domani ci vedremo, ora non mi fido”. “Ma, Signor mio, chi sa che può succedere, può sopraggiungervi qualche insulto cardiaco, qualche svenimento, che non vi dia più tempo di confessarvi”. “Padre, non mi tormentate più, io vi ho detto, che non mi fido, non posso". Ma il Confessore, che ha saputo restarvi poca speranza della sua sanità bisogna che parli più chiaro. “Signor tale, sappiate che la vostra vita sta in fine, vi prego a confessarvi ora perché domani forse non sarete più vivo”. “E perché?” “Perché così han detto i medici”. Allora il povero infermo comincia a smaniare contro i medici e contro i parenti: “Ah traditori, mi hanno ingannato: sapevano ciò e non mi avvisavano; ah povero me!” Ripiglia il Confessore; e dice: “Signor tale, non diffidate per la confessione, basta che dite le cose più gravi, di cui avete memoria, vi aiuto io a far l’esame, non dubitate. Via, su, cominciate a dire”. Si sforza l’infermo per cominciar la confessione, ma si confonde, non sa dove dar principio, comincia a dire, ma non spiegarsi, poco sente, meno intende quel che dice il Confessore. Oh Dio a questo tempo che tali si riducono a trattare dell’affare più importante che hanno, ossia della salvezza eterna! Il Confessore ascolta molti imbrogli, cattive abitudini, [...] confessioni fatte con poco dolore, con poco proposito. L’aiuta come meglio può; e dopo molti dibattimenti dice finalmente: “Via, su, basta, facciamo l’atto di dolore”. Ma Dio faccia, che non avvenga a quel moribondo quel che avvenne ad un altro infermo che capitò in mano del Cardinal Bellarmino, il quale suggerendogli l’atto di Contrizione, quegli disse: “Padre non serve affaticarvi perché queste cose così alte io non le intendo”. All’ultimo il Confessore l’assolve, ma chi sa: l’assolve Dio?

9. Dice poi il Confessore: “Orsù apparecchiatevi a ricevere Gesù Cristo per viatico”. “Ma ora sono quattro, o cinque ore di notte, mi comunicherò domani”. “No, domani forse non vi sarà più tempo, bisogna che ora prendiate tutti i Sacramenti, il Viatico, l’Estrema Unzione”. “Ah povero me! (dice l’infermo) dunque già son morto”. Ed ha ragione di dir così perché questo è l’uso dei medici di far prender il Viatico agli infermi, quando proprio stanno vicini a spirare, ed hanno perso, o quasi perso, i sensi; e questo inganno è comune. Il Viatico si deve dare sempre che vi è pericolo di morte [...]. Onde sempreché l’infermo può ricevere il Viatico, può ricevere anche l’Estrema Unzione, senza aspettare che stia vicino all’agonia, ed a perdere i sensi, come malamente si pratica dai medici.

10. Ecco già viene il Viatico, l’infermo in sentire il campanello oh come trema! Si accresce il tremore e lo spavento, quando poi vede entrare il Sacerdote nella camera col Sacramento, e guarda d’intorno al letto tante torce accese di coloro che son venuti colla Processione. Il Sacerdote recita le parole del Rituale: Accipe Frater Viaticum Corporis Domini nostri Jesu Christi, qui te custodiat ab hoste maligno, perducat te in vitam æternam. Amen [Prendi, fratello, come Viatico, il Corpo di Nostro Signore Gesù Cristo, affinché ti protegga dal nemico maligno e ti conduca alla vita eterna. Amen]. E poi lo comunica, mettendogli sulla lingua la Particola consacrata; gli porge un poco d’acqua, affinché la trangugi, mentre le fauci dell’infermo sono inaridite.

11. Indi gli dà l’Estrema Unzione, e comincia ad ungere gli occhi con quelle parole: Per istam sanctam Unctionem, et suam piissimam misericordiam indulgeat tibi Deus, quidquid per visum deliquisti [Per questa santa Unzione e per la sua piissima misericordia ti sia indulgente il Signore per i peccati fatti mediante la vista]. E poi continua ad ungere gli altri sensi, le orecchie, le narici, la bocca, le mani, i piedi, ed i reni [...]. Ed in quel tempo il Demonio va ricordando all’infermo tutti i peccati fatti con quei sensi, col vedere, col sentire, col parlare, col toccare; e poi dice: E bene? Con tanti peccati come puoi salvarti? Oh come spaventa allora ogni peccato mortale di quelli che ora si chiamano fragilità umane, e dicesi che Dio non le castiga! Ora non se ne fa conto, allora ogni peccato mortale sarà una spada che trafiggerà l’anima col suo terrore. Ma veniamo alla morte.

Punto III.   Quel che accade nel tempo della morte.

12. Dopo dati i Sacramenti [...] l’infermo rimane solo; il quale dopo quelli resta più spaventato di prima, mentre vede che tutto ha fatto in gran confusione, e colla coscienza inquieta. Ma già si fanno vedere i segni vicini della morte: l’infermo suda freddo, gli si oscura la vista e non riconosce più chi gli sta dappresso: non può più parlare, gli va mancando il respiro. Allora fra quelle tenebre di morte, va dicendo: “Oh avessi tempo! Avessi almeno un altro giorno colla mente sana per farmi una buona Confessione!” Perché il misero, della Confessione fatta, molto ne dubita, non avendo potuto attuare la mente a fare un vero atto di dolore. Ma che tempo! Che giorno! Tempus non erit amplius [Non ci sarà più tempo], Apocalisse 10, 6. Il Confessore già tiene apparecchiato il libro per intimargli il bando da questo mondo: Proficiscere anima christiana de hoc mundo [Parti anima cristiana da questo mondo]. L’infermo continua fra se stesso a dire: “O anni della mia vita perduti! O pazzo che sono stato!”. Ma quando ciò dice? Quando già sta per lui terminando la scena, quando sta per finire l’olio alla lampada, e già si accosta per esso quel gran momento, da cui dipende la sua felicità o infelicità eterna.

13. Ma ecco già gli si impietriscono gli occhi, si abbandona il corpo nel sito cadaverico alla supina, si raffreddano le estremità, le mani ed i piedi. Comincia l’agonia, il Sacerdote comincia a recitare la raccomandazione dell’anima. Terminata la raccomandazione, il Sacerdote tocca i polsi del moribondo, ed osserva che quelli più non si sentono [pulsare]. “Presto, dice, accendete la candela benedetta”. O candela, candela, facci luce ora che siamo in vita; perché allora la luce tua non più ci servirà, se non per più atterrirci. Ma già all’infermo il respiro si fa più raro e manca: segno che la morte è prossima. Allora il Sacerdote assistente alza la voce e dice all’agonizzante, se pur lo sente: “Dì appresso a me. Dio mio soccorrimi, abbi pietà di me. Gesù mio crocifisso, salvami per la tua Passione, Madre di Dio aiutami, S. Giuseppe, S. Michele Arcangelo, Angelo Custode assistetemi, Santi tutti del Paradiso pregate Dio per me: Gesù e Maria vi dono il cuore e l’anima mia”. Ma ecco gli ultimi segni della spirazione, il catarro chiuso nella gola, un lamento fievole del moribondo, la lacrima che gli scaturisce dagli occhi. Ecco che alla fine il moribondo storce la bocca, stravolge gli occhi, fa quattro pose, ed all’ultima apertura di bocca spira e muore.

14. Il Sacerdote allora accosta la candela alla bocca, per vedere se vi è più fiato; vede che la fiamma non si muove, e così si avvede che già è spirato. Onde dice: “Requiescat in pace” [Riposi in pace], e poi rivolto ai circostanti dice: “È morto; salute a loro Signori, è già andato in Paradiso”. È morto? “È morto”. E come è morto? Se si è salvato o dannato, non si sa; ma è morto in una gran tempesta. Questa è la morte, che tocca a questi sciagurati, i quali in vita hanno fatto poco conto di Dio: Morietur in tempestate anima eorum. Job. 36. 14. Dice: “Salute a loro Signori, è già andato in Paradiso”. Di ognuno che muore, si suole dire: è andato in Paradiso. È andato in Paradiso, se meritava il Paradiso; ma se meritava l’inferno? Salute a loro Signori, se n’è andato all’inferno. Tutti vanno in Paradiso? Oh quanti pochi ci vanno!

15. Ecco si veste presto il cadavere, prima che finisca d’intirizzirsi; si prende la veste più logora, giacché presto dovrà marcire insieme col cadavere. Si mettono due candele accese nella camera, si serra la cortina del letto dove sta il morto, e si lascia. Si manda poi a dire al Parroco, che venga presto la mattina a prendere il cadavere. Ecco vengono già la mattina i Preti; si avviano l’esequie, nelle quali in fine va il morto; e questa è l’ultima passeggiata che ha da fare per la terra. Cominciano a cantare i Preti: De profundis clamavi ad te, Domine etc. Frattanto quelli che vedono passar l’esequie, parlano del morto, chi dice: “È stato un superbo”; chi dice: “Fosse morto dieci anni prima!”; chi dice: “Ha avuto fortuna, si è fatto i danari, una bella casa, una bella masseria, ma ora non si porta niente con sé”. E mentre che quelli parlano, il defunto starà bruciando all’inferno. Arriva alla Chiesa, si colloca il cadavere in mezzo con sei candele, vanno gli altri a mirarlo; ma presto voltano gli occhi, poiché il cadavere mette orrore colla sua vista. Si canta la Messa, e dopo la Messa la Libera; e si conclude finalmente la funzione con quelle parole: Requiescat in pace. Riposi in pace. Riposi in pace, se è morto in pace con Dio; ma se è morto in disgrazia di Dio, che pace! Che pace! Non avrà pace, mentre Dio sarà Dio. Appresso immediatamente si apre la sepoltura, si butta in quella il cadavere, si serra la fossa colla pietra, e si lascia a marcire, ed esser pascolo dei sorci e dei vermi; e così per ognuno finisce la scena di questo mondo. I parenti si vestono di lutto, ma prima si applicano a spartirsi le robe lasciate; gettano qualche lacrima per due o tre giorni, e poi se ne scordano. E del morto che ne sarà? Se si è salvato, sarà felice per sempre; se si è dannato, sarà per sempre infelice.



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