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lunedì 29 aprile 2024

La signorina comunista che voleva sposare un uomo cattolico

Padre Pietro Alagiani, S. J. (1894 - 1981), zelante cappellano militare dell'Armata Italiana in Russia, nel suo libro di memorie sulla prigionia in Unione Sovietica raccontò di una signorina comunista che, disgustata dalla perversità dei costumi della gioventù bolscevica, voleva sposarsi con un prigioniero cattolico che pensava fosse celibe.


Ma l'improvviso controllo delle nostre carte dei quaderni, oltre ad averci dato occasione di umoristici scherzi e di allegre canzonature, aveva anche aperto al nostro sguardo uno spiraglio per vedere tutto il marcio dei costumi della gioventù comunista.

Il giovane ufficiale G. P. [era un prigioniero, n.d.r.], che durante tutto il tempo del controllo aveva tenuto un'animata conversazione con una delle signorine [che lavorava nel carcere, n.d.r.], ci raccontò strabilianti particolari intorno all'argomento trattato.

La ragazza s'era amaramente lamentata della corruzione della gioventù bolscevica. La sua compagna - che credevamo signorina - era già per la terza volta divorziata a soli 22 anni. Il giovane aveva osservato con meraviglia che non comprendeva la causa di tanti divorzi essendo quella ragazza - secondo lui - tutt'altro che brutta o di carattere insopportabile. «Tanto peggio per lei!» esclamò l'altra e prese a spiegare che da loro, per una ragazza, l'avere un aspetto leggiadro ed essere buona significava divenire zimbello dei giovinastri più scostumati, i quali, dapprima se ne disputavano la mano con ipocrito accanimento; quello poi che per primo giungeva ad ingannarla con una farsa di matrimonio, appena incontrasse una qualsiasi spudorata farfalla, non esitava a gettarla sul lastrico del disonore con uno specioso processo di divorzio.

Essa stessa era signorina non avendo ancora osato unirsi in matrimonio con alcuno e diceva di non voler mai maritarsi con un giovane sovietico [...]. Asseriva che, tra gli sposi comunisti di sua conoscenza, nessuna coppia aveva vissuto insieme neppure per dieci anni. La durata normale dei loro matrimoni era in genere di due o tre anni e alle volte anche solo di alcuni mesi.


La lezione della signorina comunista russa.

Quella signorina, nella sua giovane età, aveva mostrato una maturità di giudizio e di saggezza da far stupire perfino l'ufficiale G. P. Ella riconosceva la fonte della corruzione della gioventù comunista nella legislazione matrimoniale sovietica con la sua larga possibilità di divorzi e condannava la spudoratezza della «morale comunista», bandita dai primi capi del comunismo, con cui - secondo lei - erano state corrose le sane radici delle costumanze patriarcali del buon popolo russo. Se, diceva essa, la prima redazione della legge sul divorzio (per cui bastava la semplice e non motivata dichiarazione d'una parte per riavere la piena libertà), era stata più tardi alquanto ristretta, tuttavia anche nella presente forma la legge stessa offriva un abbondante pascolo alla scostumatezza pubblica.

Si scagliava così contro la dottrina morale di Lunaciarski, primo commissario della Pubblica Istruzione sovietica, e raccontava, come, fra tante altre aberrazioni dei capi comunisti, costui a suo tempo avesse proclamato in pubbliche conferenze che la vergogna e il pudore erano dei pregiudizi capitalistici e insegnasse nelle università agli studenti ed alle studentesse che nelle reciproche loro relazioni di benevolenza per i comunisti non esiste né peccato né male morale, ma solo prudenza e misura per non ammalarsi […].

Essa, assicurando d'aver inteso tutte queste cose da una sua zia, una delle studentesse presenti alle lezioni di Lunaciarski, aggiungeva due esempi (pure raccontatile dalla zia) per mostrare fino a quale bassezza d'immoralità e di spudoratezza fosse arrivata la gioventù comunista.

Un medico di Leningrado ogni qualvolta aveva l'occasione di presentare alla società od agli amici la propria moglie, ne approfittava con particolare soddisfazione per usare una sua preferita formula: «Compagni, Vi presento la mia quinta, ma non ultima moglie», volendo così alludere alle prime quattro già divorziate e alla propria volontà di sbarazzarsi anche di quella dopo qualche tempo, né più né meno come si farebbe con un paio di scarpe o con una giacca per il variare della moda.

[...]

Perciò essa avvilita di quello ch'aveva udito e letto, e atterrita di ciò che vedeva di continuo attorno a sé, sentiva un vero abborrimento contro il matrimonio sovietico stimando - e non a torto - che nella società comunista la donna abbia perduto tutta la sua dignità di venerata sposa, di tenera madre e di sacro legame di amore nel dolce focolare domestico, e persuadendosi sempre più che nelle famiglie sovietiche sia impossibile trovare la vera felicità dell'amore coniugale, della cura per la prole e della pace domestica. Cose sole che essa aveva unicamente bramato e cercato per il proprio avvenire.

In fine la poverina, mossa dalla sua ingenuità tipicamente russa e ispirata dal modo di fare dei comunisti e dall'educazione da loro ricevuta, proponeva al giovane ufficiale G. P. (credendolo celibe) un suo ben studiato piano. Da un pezzo aveva seguito le vicende di lui e lo aveva trovato un uomo dabbene. Fra un anno egli avrebbe già scontato la sua pena. Restasse, dunque, in quella città che ella si prenderebbe cura di trovare per lui un ottimo impiego di direttore di un magazzino della cooperativa, promessole da un suo parente, pezzo grosso nella Cooperazione provinciale. Per sé, essa aveva già assicurato un posto lucroso negli uffici del «gorsoviet - comune». Quindi potrebbero essere molto felici unendosi in matrimonio, essendo essa l'unica figlia di madre vedova e avendo ereditato dal padre un bel patrimonio.

«Io lo so - affermava essa - che voi europei siete cattolici e non ammettete il divorzio. Solo i giovani cattolici possono formare una felice famiglia con un inviolabile vincolo di amore, di pace e di benessere!...».

L'ufficiale G. P., non bastandogli l'animo di far crollare in un attimo i bei castelli in aria - elaborati e preparati forse con tante pene e suppliche e raccomandazioni dalla povera e disgraziata ma buona e saggia ragazza - dichiarandole d'essere ammogliato, di avere quattro vispi figlioli e di non sentire alcuna pazza voglia di condividere con lei la schiavitù sovietica, aveva semplicemente risposto che, oltre tutto, era prematuro parlare di ciò, non sapendo se, alla fine della sua reclusione, egli sarebbe stato rilasciato in libertà oppure avrebbe avuto un nuovo termine di reclusione, come tanti altri. [...]

Penso, a conclusione, che se tutte de donne europee riflettessero all'episodio della signorina comunista ed alle sue parole non avrebbero la sconsigliatezza di cooperare all'avvento di un ordine sociale, in cui per prima la donna sarebbe calpestata e resa disgraziata e infelice nell'irrimediabile perdita della sua vita d'amore, delle sue naturali esigenze, delle dolci e tenere soddisfazioni e pene materne, della missione tutta sua propria di angelo tutelare nel sublime santuario familiare.

E mi vien fatto d'aggiungere che se tutti i cattolici d'Europa vivessero nella loro vita privata - come saggiamente supponeva questa comunista russa - i principi di fede e di morale che professano, allora anche i nemici della verità non troverebbero mai le tanto cercate ed esagerate occasioni per gettare fango sull'immacolato manto della Sposa di Cristo,... allora i nostri giovani si accingerebbero con maggiore serietà e preparazione alla tremenda scelta della compagna con la quale portare insieme il giogo, le pene e le gioie della vita terrestre e raggiungere sempre insieme, accompagnati dai germogli di un sacro amore, il porto della vita celeste,... allora tutti i coniugi cristiani troverebbero nelle proprie famiglie le delizie del regno d'amore e trasformerebbero il proprio focolare domestico in vero Paradiso terrestre!...


[Brano tratto da "Le mie prigioni nel paradiso sovietico", di Padre Pietro Alagiani, S. J., Edizioni Paoline, imprimatur: e Vicariatu Urbis die 15 Apr. 1956, + Aloysius Traglia, Archiep. Caesarien. Vicesgerens].