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mercoledì 31 maggio 2023

Con la morte si perde tutto

Dagli scritti di Sant'Alfonso Maria de Liguori, Dottore della Chiesa.


In morte si perde tutto

"Iuxta est dies perditionis" (Deut. 29. 21). Il giorno della morte si chiama il giorno della perdita, perché allora si perde dall'uomo quanto si è acquistato in vita, onori, amici, ricchezze, feudi, regni, tutto allora si perde. Che serve dunque l'acquistar tutta la terra, se in morte tutto si ha da lasciare? Tutto resta sul letto del moribondo. Vi è forse alcun re (disse S. Ignazio al Saverio, quando lo tirò a Dio) che nell'altro mondo si ha portato un filo di porpora in segno del suo dominio? Vi è alcun ricco, che si ha portata morendo una moneta o un servo per suo comodo? Nella morte tutto si lascia. L'anima entra sola nell'eternità, e solamente dall'opere sue va accompagnata. Povero me, dove sono l'opere mie, che possono accompagnarmi all'eternità beata? Altre non vedo che quelle che mi fan meritevole dell'inferno.

Gli uomini in venire al mondo vengono disuguali: chi nasce ricco, chi povero: chi nobile, chi plebeo. Ma nell'uscirne tutti muoiono egualmente. Affacciati ad una sepoltura, vedi se puoi scorgere tra quei cadaveri, chi è stato il padrone e chi il servo: chi il re e chi il vassallo. La morte eguaglia, come scrisse Orazio, alle zappe gli scettri: "Sceptra ligonibus aequat". Mio Dio, si procurino pure gli altri le fortune di questo mondo, io voglio che la sola grazia vostra sia la mia fortuna. Voi solo avete da essere l'unico mio bene in questa e nell'altra vita.

In somma ogni cosa di questa terra ha da venire a fine. Finiranno le grandezze, e finiranno le miserie: finiranno gli onori, e finiranno le ignominie: finiranno i piaceri, e finiranno i patimenti. Beato in morte non già chi ha abbondato di ricchezze, di onori e di piaceri: ma chi ha sopportata con pazienza la povertà, i disprezzi e le pene! Allora non consola il possesso de' beni temporali, solo consola quel che si è fatto e patito per Dio. Gesù mio, staccatemi da questo mondo, prima che me ne stacchi la morte. Aiutatemi colla vostra grazia; già sapete quanto io son debole. Non permettete che abbia da esservi più infedele, come ho fatto per lo passato. Mi pento, Signor mio, d'avervi tante volte disprezzato. Ora v'amo sopra ogni bene, e propongo di perdere mille volte la vita che la grazia vostra. Ma l'inferno non lascia di tentarmi; per pietà non m'abbandonate. Non permettete ch'io mi separi più dal vostro amore.

O Maria speranza mia, impetratemi voi la santa perseveranza.


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Così chiamava S. Agostino il pensiero dell'eternità: Il gran pensiero: "Magna cogitatio". Questo è quel pensiero, che ha mandati tanti solitari a vivere ne' deserti, tanti religiosi (anche re e regine) a rinserrarsi ne' chiostri, e tanti martiri a finir la vita ne' tormenti, affin di acquistarsi l'eternità beata del paradiso e di evitare l'eternità infelice dell'inferno. Il ven. Giov. Avila convertì una certa dama con queste due parole: "Signora, le disse, pensate a queste due parole: Sempre e mai". Un certo monaco si chiuse in una fossa, ed ivi non faceva altro che esclamare: "O eternità! O eternità!" Ah mio Dio, quante volte io mi ho meritata l'eternità dell'inferno! Oh non vi avessi mai offeso! Datemi dolore de' peccati miei, abbiate pietà di me.

Dicea lo stesso P. Avila che chi crede all'eternità e non si fa santo, merita star chiuso nella carcere de' pazzi. Ognuno che si fabbrica una casa, molto si studia per farla venire comoda, ariosa e bella, e dice: "Fatico, perché in questa casa ci ho da stare tutta la mia vita". E poi per la casa dell'eternità tanto poco si pensa! Giunti che saremo all'eternità, allora non si tratterà di stare in una casa più o meno comoda, più o meno ariosa; si tratterà di stare o in una reggia piena di tutte le delizie, o in una fossa piena di tutti i tormenti. E per quanto tempo? non per quaranta o cinquant'anni, ma per sempre, mentre Dio sarà Dio. I santi per salvarsi hanno stimato far poco, menar tutta la lor vita in penitenze, orazioni ed opere buone. E noi che facciamo? Ah mio Dio, già son passati tanti anni di mia vita, già la morte si accosta, e finora che bene mi trovo fatto per voi? Datemi luce, datemi forza a vivere per voi questi giorni che mi restano. Basta quanto vi ho offeso; ora vi voglio amare.

"Cum metu, et tremore vestram salutem operamini (Phil. 2. 12). Per salvarci bisogna che tremiamo di dannarci, e tremiamo non tanto dell'inferno, quanto del peccato, che solo può condurci all'inferno. Chi trema del peccato, fugge le occasioni pericolose, spesso si raccomanda a Dio, piglia i mezzi per conservarsi in grazia. Chi fa così, si salva; e chi non fa così, è moralmente impossibile che si salvi. Ed avvertiamo quel che dice S. Bernardo: "Nulla nimia securitas, ubi periclitatur aeternitas". Non v'è sicurtà che basta, per assicurare la eternità. Ah mio Redentore, il sangue vostro è la mia sicurtà. Io era già perduto per li peccati miei, ma voi m'offerite il perdono, s'io mi pento d'averli commessi. Sì che mi pento con tutto il cuore d'avere offeso voi, bontà infinita. Io v'amo, sommo bene, più d'ogni bene. Vedo che voi mi volete salvo, ed io voglio salvarmi per amarvi in eterno.

O Maria Madre di Dio, pregate Gesù per me.


[Brani tratti da "Via della salute"]



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