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martedì 13 febbraio 2024

Nel nostro cimitero di guerra di Mikailovka

Una delle pagine più drammatiche della storia d’Italia è costituita dalla “Campagna di Russia” svoltasi tra il 1941 e il 1943. Anche tanti sacerdoti vennero inviati al fronte per assistere spiritualmente i combattenti. Alcuni cappellani militari, dopo essere tornati in Patria, hanno dato alle stampe le loro memorie su quel che vissero in guerra. Uno di essi è Don Guglielmo Biasutti, il quale nacque l’8 agosto del 1904 a Forgaria nel Friuli e morì il 23 febbraio 1985 a Udine. Quando nel 1941 scoppiò la guerra con l’Unione Sovietica venne inviato sul fronte orientale come cappellano militare della Legione d’Assalto CC. NN. “Tagliamento”. 

Uno dei rischi più gravi che si corre in guerra è di morire odiando i nemici e di meritare la dannazione eterna. Don Guglielmo Biasutti svolse un proficuo apostolato sacerdotale tra i suoi legionari: celebrava la Messa, confessava, incitava a pregare il Rosario, confortava i sofferenti, animava a sopportare cristianamente le dure privazioni e le numerose fatiche, esortava a non odiare i nemici, assisteva i moribondi, ecc. Un vescovo italiano, Mons. Barbieri, giunse a definirla la “Legione che prega”. Don Biasutti nel suo libro intitolato “Nel nostro cimitero di guerra di Mikailovka”, pubblicato nel 1961, scrisse: “Tutti i legionari avevano però un amore patrio puro e profondo, una fede religiosa sostanziale ed un cosciente altissimo senso del dovere e del sacrificio. S'era poi diffusa tra noi e ci aveva compenetrati una singolare poesia, uno spirito di corpo ed un affiatamento, che furono di impareggiabile aiuto per superare tante prove. Tali qualità finirono per imporsi a tutti: anche a coloro che non le avevano sapute intravvedere, anche ai commilitoni degli altri reparti italiani [...]”. Infatti i legionari erano visti con simpatia e ammirazione anche dai soldati del Regio Esercito, tra cui i coraggiosi bersaglieri della valorosa Divisione Celere. Spesso persino i civili russi vedevano con simpatia i legionari e gli altri soldati italiani. Ad esempio quando i legionari arrivarono a Mishiritz, inizialmente i civili erano timorosi, ma appena si accorsero che non erano arrivati i tedeschi bensì gli italiani, uscirono dalle loro case e ricolmarono i nostri soldati di gentilezze e di alimenti, come raccontato dallo stesso Don Guglielmo. Del resto è risaputo che la popolazione civile accoglieva spesso i combattenti italiani con la celebre frase “Italianski karasciò!”, cioè “Italiani brava gente!”, perché generalmente i nostri soldati si comportavano bene col popolo e non commettevano le crudeltà compiute invece dai nazisti. Anche oggi quando i militari italiani vengono impiegati in missioni all'estero si fanno ben volere dalle popolazioni locali.

Tra i numerosi fatti raccontati da questo zelante cappellano militare ce ne sono alcuni che mi hanno colpito in modo particolare, penso ad esempio al racconto del modo paziente e sereno con cui il legionario Mario D’Antoni ha sopportato la grave ferita che lo ha portato alla morte. Di ciò ne fu testimone anche un altro eroico cappellano militare, Don Enelio Franzoni, medaglia d’oro al valor militare, il quale svolse il suo apostolato in un ospedale da campo situato nelle retrovie del fronte. Ecco quel che scrisse in proposito Don Guglielmo Biasutti nel summenzionato libro: 

La mattina del 29 dicembre [1941, n.d.r.], il giorno dopo la conquista di Voroscilova, fu veramente infernale. In breve la nostra piccola infermeria rigurgitò di feriti. E non solo di feriti. Chi li aveva accompagnati si soffermava un poco per riprender fiato. O qualcuno ci veniva per attingere coraggio. Ad un certo momento la ressa fu tale da recare impedimento. E il nostro bravissimo dott. Pappalepore proruppe deciso: «Chi non è ferito corra subito alle postazioni. Se rimanete qui saremo spazzati tutti...». Se n'andarono, dunque. Ma rimase lì, in piedi, uno che non pareva fosse ferito: il mio caro, semplice ed umile D'Antoni Mario. Non pareva ferito. Lo guardai e mi sorrise. Ed io allora osai dirgli: «E tu perché non vai?». Mi rispose: «Sono ferito anch'io, signor cappellano». Non gli replicai nulla. Continuai ad aiutare il dottore nelle medicazioni. Ed il povero D'Antoni dovette restar male perché non mostravo maggiore interesse al suo caso. Ma sorrideva...

Poco dopo mi disse: «Signor cappellano, scrivete a mio zio dopo!». Mio Dio, com'era terribilmente chiaro quel «dopo» [evidentemente aveva capito che stava per morire, n.d.r.]. Alzai sbigottito il capo e gli chiesi: «Sei ferito gravemente?». «Credo di sì», rispose. E sorrideva come se volesse scusarsi. Lo medicammo. [...] Pochi giorni dopo il cappellano don Enelio Franzoni, dell'837° O. C. [ospedale da campo, n.d.r.] che andrà prigioniero nel 1943 e sarà poi decorato di medaglia d'oro, mi scriverà in linea questo biglietto: «Sento il dovere di comunicarvi che è morto presso questo ospedale la vostra C.n. D'Antoni Mario ed è morto come un santo». Fu l'unica lettera che ricevetti a Voroscilova. E se don Enelio sentì il dovere di scrivermela, la morte del mio buon Mario deve averlo colpito fortemente. Io ne ricorderò sempre il sorriso, quel sorriso!

Devo aggiungere qui che D'Antoni Mario era uno di quelli che tenevano su il Rosario, a sera, nel proprio plotone. Poiché occorre dire che i miei legionari dicevano il Rosario volentieri e quasi ogni sera. Ed io trovai nelle tasche di quasi tutti i Caduti la corona del Rosario, che mi servì benissimo a legare le mani perché non rimanessero scomposti nell'irrigidimento della morte. Lo dicevano non solo in linea - od anzi, ovviamente, meno in linea - lo dicevano nei mesi che passammo in Italia prima di partire; lo dicevano sui camions nella marcia di avvicinamento al fronte; lo dicevano nelle postazioni sul Dnieper; e lo dissero i superstiti nelle isbe di Mikailowka. Il Vescovo di Cassano Jonio, mons. Barbieri, additò ripetutamente dal pulpito il contegno e la fede della «Legione che prega». E pensate con quale commozione, dopo la morte di D'Antoni Mario o di qualche altro di coloro che «tenevano su il Rosario», io mi sentivo dire da qualcuno: «Signor cappellano, ho preso io il posto nella recita del Rosario».

Perciò, il giorno di Pasqua del '42, dopo aver distribuito a tutti la S. Comunione, potevo dire con diritto queste parole: «Signor Comandante, se la "Legione che prega" è diventata, sulle bocche di tutti, la "Legione che combatte in silenzio" e la "Legione che non cede mai"; se la Legione è salita ai vertici così alti di tranquillo eroismo; se all'arrivo dei legionari i nostri commilitoni fanti, bersaglieri ed artiglieri ci fanno festa come ad amici su cui si può contare; tutto ciò è avvenuto per la ricchezza profonda di fede, che ha dato ai nostri uomini il lievito di tanta forza e di tanta dedizione...».

Ed il comandante Nicchiarelli ed il vicecomandante Formica, i quali avevano voluto ricevere anch'essi la Comunione dalle mani di quel cappellano, ormai in partenza, che s'era levata benedicente su tanti Caduti e li aveva composti poi nel Cimitero di Mikailowka, i nostri comandanti assentivano commossi.

[Nella foto in basso è raffigurato Giovanni Messe (in primo piano a destra), Generale di Corpo d'Armata e comandante del CSIR, ossia il Corpo di spedizione italiano in Russia, mentre passa in rassegna un battaglione di legionari].