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venerdì 24 maggio 2024

Nei gulag sovietici come nelle catacombe

Sui mezzi di informazione si parla spesso dei lager tedeschi, mentre non si parla quasi mai di quelli sovietici, i quali non erano molto diversi da quelli hitleriani, basti pensare all’elevato tasso di mortalità tra i prigionieri. Una delle cose più ingiuste era la proibizione di compiere atti di culto. Ovviamente i soldati italiani prigionieri li compivano lo stesso ma di nascosto. Grande fu l’eroismo dei cappellani militari che, anche se reclusi nei gulag, continuarono a svolgere clandestinamente il loro apostolato sacerdotale. A tal proposito riporto un breve brano tratto dal libro edito da Longanesi ed intitolato “Sette rubli per il cappellano”, scritto dal sac. Guido Maurilio Turla (1910-1976), il quale ai tempi della Campagna di Russia fu cappellano degli alpini e, durante la drammatica ritirata dal fiume Don, venne preso prigioniero dai sovietici.


Indispensabile in guerra è l’opera del cappellano militare. La sua presenza è un’autentica testimonianza di fede e disciplina per il morale delle truppe combattenti. Egli è inseparabile dalle unità armate: accanto a ogni bandiera, un comandante e un cappellano. Questo ufficiale, con la croce rossa sulla divisa, è un sacerdote che accompagna i suoi fedeli nelle esercitazioni in tempo di pace, in trincea in tempo di guerra, nei campi in tempo di prigionia.

Un eroe da rievocare: don Giovanni Mazzoni, cappellano del 3° bersaglieri, caduto sul fronte russo il 25 dicembre 1941, mentre assisteva un morente. Nel sacrificio di don Mazzoni è simboleggiato il coraggio e la dedizione dei soldati della croce e della patria. Il loro contributo di sangue è proporzionalmente pari a quello dei combattenti. Cappellani militari caduti sul fronte russo (1941-43): cinquantadue morti; sessantaquattro feriti; quattro medaglie d’oro. Due alla memoria: don Mazzoni e padre Oberto; due a viventi: don Enelio Franzoni e padre Giovanni Brevi; e tante medaglie di argento, di bronzo e croci di guerra.

La prigionia per i cappellani è stata dura quanto quella di tutti gli altri prigionieri; in essa ebbero un ulteriore collaudo e come uomini e come sacerdoti.

Nel campo di Oranki era interdetta ogni assistenza religiosa; proibita la celebrazione della messa. Per eludere questi ordini, noi cappellani ci siamo fatti assumere all’ospedale in qualità di infermieri per dare il conforto spirituale ai malati.

Al convalescenziario di Skit, dove rimango cinque mesi, l’assistenza spirituale e la vita religiosa dei prigionieri si limita alle preghiere del mattino e della sera, recitate nell’abbaino-dormitorio, a porte chiuse, mentre un ufficiale funge da «palo» all’entrata.

Alla domenica il cappellano commenta brani del Vangelo, ascoltato con attenzione dagli ufficiali raccolti in un angolo all’aperto, sotto gli alberi del campo. Tutto avviene sotto la nostra responsabilità e contro la volontà del comando russo. Vale a dire che in Oranki [uno dei famigerati campi di prigionia sovietici, n.d.r.] la vita religiosa si svolge nel modo e con lo spirito dei primi cristiani nelle catacombe.