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sabato 3 giugno 2023

I ragazzi non si trascinano al bene con la forza ma con la carità

Non di rado negli ambienti tradizionali si incontrano persone che si comportano in maniera aspra, dura ed esageratamente severa. Se questo modo di comportarsi è fallimentare con gli adulti, lo è ancora di più con i fanciulli. I nostri esempi da imitare non devono essere i “sergenti di ferro”, bensì i santi come Don Bosco. A tal proposito riporto alcuni brani tratti da un interessante articolo intitolato “L'Educatore dell'Ottocento” e pubblicato sul “Bollettino Salesiano” del settembre del 1942.

Il dramma delle Scuole dell'Ottocento.

Le testimonianze autobiografiche di molti scrittori del tempo, dall'Alfieri al Cavour, dal Parini al Manzoni, dal D'Azeglio al Giusti, concordano nel ricordo di precettori troppo austeri e di sistemi scolastici deprimenti. Talora anche nei collegi tenuti da religiosi, con la migliore delle intenzioni, si cercava di persuadere ai giovani i grandi ideali con un'energia ed un'austerità che finivano col renderli inamabili.

Non era matura ancora una coscienza del metodo e del suo rapporto con le esigenze della psicologia infantile. Si poneva al servizio dell'educazione cristiana una tradizione disciplinare ed una didattica che contrastavano in pieno con lo spirito di apostolato dal quale erano animati i maestri.

L'amore si celava spesso dietro un volto severo. Lo scoprì, meravigliato, anche il Giusti quando si distaccò dal suo primo precettore. «Nel dividersi da me, pianse. Se volessi dire lo stupore che mi prese a quel pianto non avrei parole che mi valessero. Uno che mi aveva bastonato, contrariato, martirizzato sempre, piangere nel punto di lasciarmi?».

Nel pianto di quel buon sacerdote e nella meraviglia del non facile discepolo si rivela il dramma che spesso si consumò nelle scuole dell'Ottocento, dove maestri, peraltro benemeriti, non avevano inteso dall'esperienza questa lezione: che i ragazzi non si trascinano con la forza al bene; e che per promuovere in loro, con loro, la volontà di servire lietamente il dovere, bisogna conquistare la loro confidenza.

C'era bisogno che qualcuno riaffermasse questa verità vertice della pedagogia, che dalla teoria la facesse calare nella pratica e ne rivelasse la fecondità.

Per questo il secolo aspettava l'Educatore. L'Educatore fu Don Bosco.

L'arco della sua vita - 1815 -1888 - sottende, con quasi tutto l'Ottocento, il periodo più intenso e drammatico della nostra storia nazionale.

La missione.

Nel 1836, Giovanni Bosco studente riceveva da un amico queste confidenze:

«Sono, lascianti dir così, fra i martiri ed i fulmini, vale a dire che i professori nostri di continuo ci perseguitano. Quello di logica ha sempre in bocca i suoi castighi e ha già castigato alcuni; l'altro di geometria vuole continuamente scagliare fulmini. Tutti e due poi ci contano due o trecento volte al giorno che non pochi di noi alla fine dell'anno saranno rimandati: di modo che tutti i giorni siamo sempre sgridati or dall'uno, or dall'altro: e ci dicono che non hanno mai avuto da insegnare a tavole tanto rase quanto siamo noi, soggiungendo non sapere essi se sian caduti dalla luna o soltanto venuti l'altro giorno al mondo».

La lettera dovette fare molta impressione sul giovane vivace, dalle spalle quadre e dalle mani solcate dalla fatica, che aveva trascorso tutta l'adolescenza tra i campi e i vigneti, e di tutto avea goduto: della gioia e della natura, della libertà e del lavoro, e che per realizzare il suo ideale era entrato a vent'anni in seminario, dopo aver fondato tra i primi compagni di studio una «Società dell'allegria».

Il giovane chierico, che serbò con cura questa lettera per tutta la vita, faceva così conoscenza con quel metodo repressivo che aduggiava la scuola del tempo. Egli non sapeva di pedagogia libresca, ma aveva già un'esperienza educativa. Da essa aveva appreso che i fanciulli si conquistano coi doni cari alla fanciullezza, soprattutto col gioco e con la gioia. (Egli era stato un maestro della ricreazione: giocoliere, attore, poeta e musico).

[...]

Amico! Con questo invito i giovani accorsero con slancio, anzi Don Bosco andò loro incontro sui campi da gioco, e, giocando, fece sentire che li amava anche in ciò che essi amavano.

«Che i giovani non solo siano amati, ma che essi stessi conoscano di essere amati. Ma non hanno gli occhi in fronte? Non hanno il lume dell'intelligenza? Non vedono che quanto si fa per essi è tutto per loro amore? - No: lo ripeto, ciò non basta. - Che cosa ci vuole adunque? Che essendo amati in quelle cose che a loro piacciono, col partecipare alle loro inclinazioni infantili, imparino a vedere l'amore in quelle cose che naturalmente loro piacciono poco; quali sono la disciplina, lo studio, la mortificazione di se stessi, e queste cose imparino a fare con amore».

Il genio di Don Bosco intuì il valore educativo del gioco e volle la scuola del gioco, l'oratorio, serena e mobile scuola all'aperto, dove i ragazzi si scambiano i doni della gioia e l'amicizia fraterna; dove, mentre pulsa il massimo della spontaneità, il ragazzo si rivela com'è, e l'educatore opera, anche senza parlare, con una parola, buttata lì, passando.

Quando l'anima è lieta, è propizia l'ora di invitarla a farsi migliore.

Per far questo non occorre uscir fuori dal mondo in cui essa volentieri respira, nè usare un linguaggio che non sia gradito ai fanciulli, vivido di immagini e drammatico. Don Bosco preferisce far scuola all'aria libera - sotto gli alberi tremolanti di luce, seduti in crocchio, sulla verde erba, i ragazzi - narrando racconti o episodi di vita vissuta e sogni.

«Una volta volevo far restare ben impresso nella mente dei miei uditori quale follìa fosse l'insuperbire, l'invanire. Come fare? Avessi recato tutti i testi della Sacra Scrittura e dei santi Padri a questo proposito, i giovanetti ne avrebbero fatto ben poco caso; si sarebbero annoiati e avrebbero dimenticato presto la lezione. Raccontai adunque loro molto particolarmente con nuove circostanze da me inventate, la favola di Esopo, dove dice che una rana voleva farsi grossa come un bue; ma tanto gonfiò che infine crepò. Figurai questo fatto avvenuto vicino al Valentino, con mille svariate ridicole circostanze, e feci far un dialogo tra queste ed altre rane, per far risaltare alcuni punti morali. L'effetto mi parve straordinario».

Intanto il suo sguardo penetrante cercava gli occhi dei ragazzi e vi leggeva dentro e lontano il loro avvenire.

[...]

L'azione educativa di Don Bosco si muove sul cardine di questa verità: non c'è vera educazione senza la presenza di Dio nel fanciullo. Per questo la confessione e la comunione sono i suoi sovrani mezzi pedagogici.

Alle anime che vivono soprannaturalmente una vita divina, Don Bosco può rivolgere questo arditissimo invito: «Piena libertà di fare quello che maggiormente aggrada!». La sua libertà è quella di chi è libero in Cristo e contiene già in sè l'autorità, anzi l'ama come dall'autorità è amato. È la traduzione in termini pedagogici dell'agostiniano «Ama et fac quod vis».

[...] Concede la massima libertà perchè i ragazzi imparino ad autogovernarsi. Saranno necessarie allora le sanzioni? Questo incantatore di monelli dichiarava alla fine della vita: «In 46 anni non ho mai inflitto neppure un castigo».

I richiami trovavano vie silenziosamente efficaci. Uno sguardo esprimeva la tristezza della sua paternità dinanzi alla colpa, ma insieme era dolce d'attesa. Quando (qualche volta si doveva lamentare) accadeva un disordine collettivo, il silenzio del Padre era più eloquente di un discorso, dopo queste parole pronunciate con dolente fermezza: «Non sono contento di voi! Questa sera non vi posso dir altro».

Ma più spesso i ragazzi ricevevano il frutto dolce del premio: una carezza sul capo, un sorriso o quel quasi nulla (due nocciole, un confetto, un libretto), caro più delle grandi cose perchè offerto dal cuore del Padre. Il premio maggiore era sedere a mensa vicino a lui, che spezzava il pane con tenerezza materna. Talvolta egli voleva che i doni fossero assegnati ai meritevoli dai loro stessi compagni, per designazione spontanea.

Intanto l'Oratorio, come un germe pieno di potenza vitale, è cresciuto e dilatato in un'opera ricca di energie e di avvenire per servire in tutte le direzioni l'ideale dell'educazione. Accanto al campo da gioco sono sorti ospizi, scuole, laboratori, dove Don Bosco è padre degli orfani, insegnante degli scolari, maestro d'arte agli artigiani, tutti indirizzando con la mano sicura di chi sa scoprire le attitudini congeniali dei giovani. Come?

«Il punto sta nello scoprire in essi i germi delle loro buone disposizioni e procurare di svilupparli. E poichè ognuno fa con piacere soltanto quello che sa di poter fare, io mi regolo con questo principio, e i miei allievi lavorano tutti con molta attività ma con amore».

[...]

La didattica di questo Educatore non ha che un fine: accendere le volontà, suscitare la collaborazione e l'attività personale, ma tutto questo in un'atmosfera serena, in cui filtrano i raggi della gioia.

[...]

Una volta il Padre parlò così:

«Miei cari figlioli, voi sapete quanto io vi amo nel Signore, e come io mi sia tutto consacrato a farvi quel bene maggiore che potrò. Quel poco di scienza, quel poco di esperienza che ho acquistato, quanto sono e quanto posseggo, preghiere, fatiche, sanità, la mia vita stessa, tutto desidero impiegare a vostro servizio. In qualunque giorno e per qualunque cosa fate pure capitale di me, ma specialmente nelle cose dell'anima. Per parte mia, per strenna vi do tutto me stesso; sarà cosa meschina, ma quando io vi do tutto, vuol dire che nulla riserbo per me».

Si cercherebbero invano parole come queste nelle opere dei pedagogisti di tutti i tempi. In esse è la trasparenza del Divino Amore. La grandezza dell'opera educativa di colui che si sentiva mandato per i giovani rivela qui il suo segreto: prima di essere scienza ed arte, l'educazione è una donazione.

Il metodo preventivo.

Don Bosco non attuò un metodo nuovo. Ci teneva a dichiararlo. «Si vuole che io esponga il mio metodo; ma se nemmeno io lo so! Sono sempre andato avanti come il Signore mi ispirava e le circostanze esigevano».

I contemporanei che avevano scritto molti libri sull'educazione invitavano ad andare a vedere la pedagogia in atto nell'Oratorio. Il Rayneri concludeva spesso le sue lezioni ai futuri maestri con un: «Se volete vedere messa mirabilmente in pratica la pedagogia, andate nell'Oratorio di San Francesco di Sales e osservate ciò che fa Don Bosco».

Soltanto dietro molte insistenze egli si indusse a stendere molto tardi alcuni appunti: dodici pagine, il più breve e il più celebre scritto che conti la storia della pedagogia!

«Due sono i sistemi in ogni tempo usati nella educazione della gioventù: preventivo e repressivo. Il sistema repressivo consiste nel far conoscere la legge ai sudditi; poscia sorvegliare per conoscerne i trasgressori ed infliggere, ove sia d'uopo, il meritato castigo. In questo sistema le parole e l'aspetto del superiore debbono sempre essere severe e piuttosto minaccevoli, ed egli stesso deve evitare ogni familiarità.

Diverso, e direi, opposto è il sistema preventivo. Esso consiste nel far conoscere le prescrizioni e i regolamenti di un Istituto e poi sorvegliare in guisa che gli allievi abbiano sempre sopra di loro l'occhio vigile del direttore o degli assistenti, che, come padri amorosi, parlino, servano di guida ad ogni evento, diano consigli ed amorevolmente correggano, che è quanto dire: mettere gli allievi nell'impossibilità di commettere mancanze.

Questo sistema si appoggia tutto sopra la ragione, la religione, e sopra l'amorevolezza... ».

[...]

Una volta, interrogato ancora con insistenza sul segreto della sua opera educativa, quasi fosse una tecnica da potersi rivelare, trovò il compendio definitivo della sua pedagogia, della pedagogia che è divina ed umana, di ieri e di domani, anzi soprastorica, rispondendo semplicemente così: «Il mio metodo: la carità!».