Nei vecchi film o nelle vecchie fotografie, l'abito talare indossato dai chierichetti, generalmente era munito del classico colletto romano bianco. Purtroppo, ho notato che nelle Messe tridentine dei nostri giorni, i chierichetti ne sono spesso sprovvisti. Qualcuno si è chiesto se l'uso del colletto romano sia riservato ai soli sacerdoti. Tempo fa, Daniele Di Sorco ha risposto a questo quesito su un forum. Riporto alcuni stralci del suo interessante intervento:
Non esistono documenti della Santa Sede che regolino l'uso del colletto romano. […] Questo abuso [di aver ridotto il colletto ad unico distintivo sacerdotale. n.d.r.] ha probabilmente generato la convinzione che il colletto in particolare, e non la veste talare (o - in via di eccezione - il clergyman) in generale, sia il distintivo del clerico. Di qui le difficoltà per alcuni di ammettere l'uso del colletto da parte dei laici che, nelle funzioni liturgiche, indossano la talare.
Come si può rispondere a tale difficoltà? In tre modi: mettendo in luce la vera funzione del colletto, analizzando la prassi antica della Chiesa ed esaminando i manuali di etichetta ecclesiastica che trattano della questione.
Dobbiamo pensare, innanzi tutto, che il colletto è un necessario complemento della veste talare, da cui è separato unicamente per ragioni di praticità (come i gemelli dalla camicia o le calze dalle scarpe). Senza colletto romano, il collo della talare appare come qualcosa di vistosamente incompleto: troppo basso, troppo largo, inspiegabilmente deformato dall'apertura quadrata che mostra la nuda pelle o il colletto (spesso multicolore) del capo d'abbigliamento sottostante. È proprio la particolare conformazione della talare che ci fa capire come il colletto ne sia parte integrante, e non semplice accessorio (a differenza, per esempio, della fascia: ma nel caso della talare ambrosiana, che senza fascia non potrebbe star chiusa, essa è indispensabile quanto il colletto).
Un'ulteriore prova ci viene dal fatto che i documenti ecclesiastici parlano della talare senza mai menzionare il colletto: segno che questo era considerato indispensabile complemento di quella […]. Ma se da questi e da altri documenti si può a ragione dedurre che l'abito habitus ecclesiasticus o clericalis di cui parla il codice di diritto canonico del 1917 (can. 136, § 1) è la talare completa di colletto, ne consegue che anche i laici, nei casi in cui il codice accorda loro di portare il medesimo habitus clericalis (can. 683), possono e devono utilizzarlo. Il testo, infatti, non fa distinzioni di sorta tra le due vesti. Che poi i laici non abbiano il diritto di indossare insegne onorifiche è cosa scontata, essendo queste strettamente riservate al clero. Il nuovo codice di diritto canonico ha lasciato immutata tale disciplina, non restringendo né modificando l'uso del colletto.
Ciò che risulta dall'esame del diritto è confermato dalla prassi vigente prima della riforma liturgica. In molte fotografie d'epoca si vede chiaramente che la talare indossata dai ministranti è munita di colletto esattamente come quella dei chierici. Laddove esso non era utilizzato, ciò dipendeva dalla difficoltà di procurarsi un numero consistente di colletti nelle diverse misure, non dalla convinzione che fosse riservato al clero.
I manuali di etichetta ecclesiastica che ho consultato, di solito molto accurati nel determinare quali categorie di persone possano o non possano usare determinate insegne, non parlano mai del colletto come di un indumento riservato al clero o distintivo dello stato clericale. Se non menzionano esplicitamente la possibilità per i laici di utilizzarlo, è perché anch'essi lo considerano un normale complemento della veste talare. J. A. Nainfa (Custom of Prelates of the Catholich Church, Baltimore 1926), che si preoccupa di specificare che i chierichetti non possono usare la fascia (alla quale, del resto, non hanno diritto neppure tutti i sacerdoti), non fa alcuna distinzione del genere per quanto riguarda il colletto, né nel capitolo ad esso dedicato né altrove. Lo stesso si dica di J. Nabuco (Ius pontificalium, Parisiis-Tornaci-Romae 1956).
In definitiva si può dire che il colletto è certamente un'insegna distintiva dello stato clericale, ma non più di quanto lo sia la talare. Quindi se il ministrante, che nelle funzioni liturgiche svolge il ruolo di un chierico (precisamente dell'accolito), può indossare la talare, non si vede perché dovrebbe astenersi dal colletto.
Come si può rispondere a tale difficoltà? In tre modi: mettendo in luce la vera funzione del colletto, analizzando la prassi antica della Chiesa ed esaminando i manuali di etichetta ecclesiastica che trattano della questione.
Dobbiamo pensare, innanzi tutto, che il colletto è un necessario complemento della veste talare, da cui è separato unicamente per ragioni di praticità (come i gemelli dalla camicia o le calze dalle scarpe). Senza colletto romano, il collo della talare appare come qualcosa di vistosamente incompleto: troppo basso, troppo largo, inspiegabilmente deformato dall'apertura quadrata che mostra la nuda pelle o il colletto (spesso multicolore) del capo d'abbigliamento sottostante. È proprio la particolare conformazione della talare che ci fa capire come il colletto ne sia parte integrante, e non semplice accessorio (a differenza, per esempio, della fascia: ma nel caso della talare ambrosiana, che senza fascia non potrebbe star chiusa, essa è indispensabile quanto il colletto).
Un'ulteriore prova ci viene dal fatto che i documenti ecclesiastici parlano della talare senza mai menzionare il colletto: segno che questo era considerato indispensabile complemento di quella […]. Ma se da questi e da altri documenti si può a ragione dedurre che l'abito habitus ecclesiasticus o clericalis di cui parla il codice di diritto canonico del 1917 (can. 136, § 1) è la talare completa di colletto, ne consegue che anche i laici, nei casi in cui il codice accorda loro di portare il medesimo habitus clericalis (can. 683), possono e devono utilizzarlo. Il testo, infatti, non fa distinzioni di sorta tra le due vesti. Che poi i laici non abbiano il diritto di indossare insegne onorifiche è cosa scontata, essendo queste strettamente riservate al clero. Il nuovo codice di diritto canonico ha lasciato immutata tale disciplina, non restringendo né modificando l'uso del colletto.
Ciò che risulta dall'esame del diritto è confermato dalla prassi vigente prima della riforma liturgica. In molte fotografie d'epoca si vede chiaramente che la talare indossata dai ministranti è munita di colletto esattamente come quella dei chierici. Laddove esso non era utilizzato, ciò dipendeva dalla difficoltà di procurarsi un numero consistente di colletti nelle diverse misure, non dalla convinzione che fosse riservato al clero.
I manuali di etichetta ecclesiastica che ho consultato, di solito molto accurati nel determinare quali categorie di persone possano o non possano usare determinate insegne, non parlano mai del colletto come di un indumento riservato al clero o distintivo dello stato clericale. Se non menzionano esplicitamente la possibilità per i laici di utilizzarlo, è perché anch'essi lo considerano un normale complemento della veste talare. J. A. Nainfa (Custom of Prelates of the Catholich Church, Baltimore 1926), che si preoccupa di specificare che i chierichetti non possono usare la fascia (alla quale, del resto, non hanno diritto neppure tutti i sacerdoti), non fa alcuna distinzione del genere per quanto riguarda il colletto, né nel capitolo ad esso dedicato né altrove. Lo stesso si dica di J. Nabuco (Ius pontificalium, Parisiis-Tornaci-Romae 1956).
In definitiva si può dire che il colletto è certamente un'insegna distintiva dello stato clericale, ma non più di quanto lo sia la talare. Quindi se il ministrante, che nelle funzioni liturgiche svolge il ruolo di un chierico (precisamente dell'accolito), può indossare la talare, non si vede perché dovrebbe astenersi dal colletto.